VI

IL CICLO DELLE CANZONI DEL ’21-22

È da questa intera pressione storico-personale che trae stimolo e necessità il ciclo delle canzoni del ’21-22, aperto nell’ottobre-novembre con un violento ritorno al bisogno di intervento pubblico con la poesia e nella poesia e con una prospettiva parenetica che – sulla base del comune abbozzo in prosa Dell’educare la gioventú italiana – sembra riprendere con maggior consapevolezza il problema della disperata situazione etico-politica italiana non tanto piú prospettando l’atteggiamento individualistico del poeta protagonista della canzone All’Italia o quello dell’intellettuale-poeta che esorta al risveglio dall’antico letargo con la forza della cultura umanistica suscitatrice di illusioni generose in lotta con l’arido vero (la posizione della canzone Ad Angelo Mai), quanto puntando direttamente sulle nuove generazioni attraverso la loro educazione eroica contrapposta chiaramente all’educazione cristiano-cattolica con la sua lezione di passività, di accettazione, di ascetismo e piú alla generale educazione di aridità sentimentale e di calcolo opportunistico proprio dei «degenerati» tempi moderni e in particolare dell’epoca della Restaurazione, che tanto accentuava i caratteri storici secolari di una «schiatta ignava e finta» educata retoricamente a lodare la virtú «estinta» e a sprezzarla «viva».

Il Leopardi puntava sull’apertura all’immediato futuro (giovani e nascituri) ritenendo ormai contaminata e non piú recuperabile la generazione adulta e la classe dirigente e colta del proprio tempo.

In tale luce e in quella di un disperato immediato impegno, nel presente-futuro, della propria forza intellettuale, morale e poetica (a cui si connetteva la stessa prospettiva di una poetica dello stile rapido e conciso, pregnante e stimolante energeticamente di impressioni, pensieri, e volizioni attive e della forza poetica del contrasto tensivo[1]), prendono nuovo valore le due canzoni Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone, che svolgono successivamente il tema educativo esaltando una vitalità eroica e piena e pur, nella loro successione, indicando un passaggio dalla maggiore fiducia «sociale» della prima alla estremistica e paradossale esaltazione del disperato gesto individualistico della seconda, quando ogni contesto collettivo è considerato impossibile e non rimane che l’appello alla responsabilità eroica individuale e al dovere e alla soddisfazione individuale nella scelta del rischio come unica possibilità di intensa vitalità e di ricavo di piacere di questa rispetto all’ozio e al tedio del puro esistere.

Nelle Nozze infatti – in fertile e non casuale consonanza con temi, motivi e moduli alfieriani – l’impeto parenetico-impegnativo si configura nell’appassionato appello alla sorella[2] e alle giovani donne italiane a crescere ed educare figli capaci di capovolgere – con la loro virtú di «miseri», ma non «codardi» – la situazione attuale e ad emulare la radiosa e tenera virtú di Virginia (nella cui rappresentazione la canzone raggiunge dinamicamente la sua zona piú alta e non perciò slegata dal resto del componimento senza di cui non avrebbe ragioni e di cui raccoglie, in una piú melodica ma energica fusione, i toni alti e i toni affettuosi e colloquiali già presenti nel primo rivolgersi alla sorella) sperando un esito rivoluzionario e un risorgere della virtú italiana, malgrado tutto ciò che il Leopardi diceva sulla corruzione attuale rispetto allo stato naturale delle antiche età («Ahi troppo tardi, / e nella sera dell’umane cose / acquista oggi chi nasce il moto e il senso...» «ancora / che piú bello a’ tuoi dí splendesse il sole / ch’oggi non fa»).

Invece in A un vincitore nel pallone l’iniziale impulso attivo, pedagogico, l’appello ai giovani italiani ad una attività agonistico-sportiva preparatrice di un’attività eroica vengono lentamente ingorgandosi (all’altezza della terza strofa singolarmente ardua, complessa, aggrumata, nell’ambizione di quell’unione di poesia e filosofia nel linguaggio conciso-rapido, energetico e pregnante che – a quell’altezza – il Leopardi cominciava a postulare come miracolosa eccezione alla «insociabilità» di poesia e filosofia, particolarmente «odierna»[3]) in una prospettiva fra storica ed esistenziale che sposta il tema parenetico piú lineare e fiducioso verso una sua visione pessimistica piú disperata ed eroica.

Quello che appare un «gioco» (il gioco del pallone e ogni simile attività ginnica) è invece un pretesto di vitalità, un mezzo di ravvivare negli «egri petti» il «caduco fervor», e filosoficamente non è piú vano dell’arido «vero», ed anzi, nella rovinosa e catastrofica prefigurazione della desolata sorte di un’Italia ridotta a paese inabitato, l’affrontamento del rischio, l’azzardo della vita in un gioco pericoloso e mortale diviene l’unico mezzo con cui il «buon garzone», generoso e storicamente disperato di dover «sopravvivere» alla patria «infelice», e insieme ed esistenzialmente convinto della miseria di una vita senza gloria e senza passione, può e deve (in questo supremo richiamo alla responsabilità personale dove ogni nesso sociale è crollato) sfuggire alla viltà, al tedio di una vita torpida e inerte, a una vita non-vita che cosí – sfidando la morte – egli riporta a vera vita, disprezzandola, esaltando in un supremo rischio tutta la vitalità concentrata in quell’attimo e insieme godendone il riaffluire momentaneo della sua attrazione quando tocca il «varco leteo».

Nostra vita a che val? solo a spregiarla:

beata allor che ne’ perigli avvolta,

se stessa obblia; né delle putri e lente

ore il danno misura e il flutto ascolta;

beata allor che il piede

spinto al varco leteo, piú grata riede.

Ed è proprio nel finale intensissimo e poeticamente luminoso-cupo (l’espansione che nello scatto perentorio del primo verso, teso dall’energico, fulmineo contrasto fra l’interrogativo e l’affermativo, si svolge bramosa nel replicato «beata» e la scura designazione del tedio esistenziale delle lente ore che marciscono come in un fiume limaccioso e torpido) che la posizione pedagogica piú esplicita e positiva si cambia in una singolare pedagogia dell’azione senza esito, attorta in se stessa e pur non snobisticamente dilettantesca, se in essa esplodono tutta la carica pessimistico-eroica di questo Leopardi, il fondo del suo severo edonismo sensistico, la sua avidità di vitalità piena, la sua passione per le sensazioni forti ed energiche (e dunque mai la posizione di un byroniano attivismo retorico né quella del «sombre amant de la mort» della nota indicazione di Musset), la sua persuasione della miseria di una vita non-vita e l’apertura al sentimento della noia e del tedio. Con queste consonanze romantiche, ma (come già sopra indicavo attraverso i riferimenti a Byron e Musset) con quanta maggiore virilità e profondità, con quanta maggiore intima essenzialità e sobrietà pur sul limite di gravi rischi, sbilanciamenti e pur in un tipo di poesia che ancor troppo riporta in sé (e ciò vale anche per le punte piú apertamente oratorie-letterarie delle Nozze, come quella sulla nobiltà dell’amore) scorie auliche e letterarie meno bruciate e riassorbite in questa direzione prevalentemente «oraziana»!

È evidente che la prospettiva parenetica piú immediata (l’azione per il risorgimento dell’Italia) veniva cedendo alle spinte piú profonde del pensiero attivo leopardiano, tanta era la forza della delusione storico-patriottica e tanta era l’attrazione dei temi problematici piú assillanti sul filo del sistema della natura e delle illusioni e della sempre piú difficile difesa positiva alla luce delle sue contraddizioni implicite ed emergenti proprio nei fulminei interventi del superiore sguardo lirico[4] che d’un colpo (ma non senza essere alimentato dal denso attrito di un pensiero estremamente esigente e problematico) apriva paurosi spiragli sulla stessa realtà di quel sistema tanto tenacemente perseguíto e affermato. Si può capire cosí, come, dopo le due prime canzoni piú strette intorno alla situazione italiana (ma già solcate dalla striscia struggente del finale della seconda), il Leopardi potesse passare al livello piú profondo del Bruto minore e, sulla via da questo aperta, al tormentoso dibattito sulla stessa natura e sulle illusioni quale si svolge nella Primavera, nell’Ultimo canto di Saffo e nella battaglia di retroguardia dell’Inno ai Patriarchi.

Cosí il Leopardi è riportato dal presente al passato, non per una fuga da quello, ma per una verifica piú profonda dei suoi problemi attualissimi e un’esplosione delle loro feconde contraddizioni nella stessa zona che era stata fino ad ora paradigmatica ed esemplare, termine di paragone a contrasto con la decadenza e corruzione presente. Alla fine, nel presente, nell’epoca della Restaurazione e nella stessa propria situazione biografica di «italiano» disperato e invano proteso a stimolare un capovolgimento assurdo delle condizioni attuali, il Leopardi incontrava sempre il limite di un passato magnificato, ma inesplorato, ed ora in quello si immergeva per tentarne la forza effettiva e la sua resistenza di difesa del sistema della natura e delle illusioni da cui fino allora aveva ricavato un’immagine dell’uomo integrale da opporre, anche entro se stesso, all’uomo scisso, alienato dalla natura e dalla società naturale, corrotto dall’arida ragione moderna. Il Bruto minore, composto nel dicembre del ’21, fu cosí l’inizio di questa nuova esperienza e portò drammaticamente (e non solo drammaticamente nella forza dell’impostazione del monologo di un personaggio tragico su di una scena altamente drammatica, ma drammaticamente per quanto implicava di rottura e turbamento nella vasta zona dell’antica civiltà e, da questa, nello stesso rapporto fra uomo e destino), portò bruscamente alla luce paurosi elementi di protesta e di accusa «blasfema» sulle stesse illusioni-valori, sui limiti di resistenza della natura e sulla generale situazione dell’uomo virtuoso ed eroico (e ciò ai suoi massimi livelli) in un mondo esistenziale ingiusto e tirannicamente crudele e malvagio.

Certo, ancora nel Bruto minore resiste la cesura storica fra le epoche antiche, libere, democratiche, naturali e la loro decadenza e il loro crollo quando la ragione corrompe e svela gli incanti benefici della natura («un tempo reina e diva» come si dice nella strofa quarta) e la libertà repubblicana cade nella battaglia di Filippi. Sicché quella canzone poteva apparire anche come convalida dell’indissolubilità fra le condizioni intere di una società felice e generosa perché libera, democratica, non insidiata da filosofie scettiche e corruttrici e comunque convalida anche della grandezza di un personaggio classico nella stessa sua morte disperata e suicida.

Ma in quella catastrofe grandiosa di cui il poeta seppe abbozzare grandiosamente le risonanze paurose nella scena di apertura, nelle immagini della successiva barbarie (prefigurata immediata, abolendo i «fasti» imperiali ripugnanti sempre allo spirito leopardiano), nei paesaggi lividi e insanguinati del campo di battaglia, illuminati dalla luce sbattuta della luna placida e gelida, il Leopardi portava una tale forza di protesta e di accusa contro la vana illusione dell’adorata virtú e contro gli Dei vili e neronianamente ostili o invidiosi, contro le stesse immagini della natura (il sinistro augello avido di cadaveri, la stessa luna odiosamente indifferente) che tutto ciò finiva per prevalere di per sé al di là di ogni restrizione storica e investiva durissimamente ogni idea provvidenziale, benefica, teleologica, cosí come ogni idea di compenso immortale ultraterreno solo frutto di «tenebroso ingegno» – Platone – nemico degli uomini e della loro liberazione suicida, osteggiata dalla stessa maligna natura, gelosa del proprio potere di carnefice e persecutrice delle sue creature. Tanto che, molto piú tardi, lo stesso Leopardi nella celebre lettera al De Sinner del 24 maggio 1832 poté citare il Bruto minore (e non senza forzature rispetto alle proprie posizioni del ’32 tanto diversamente maturate) come testo fondamentale per comprendere la natura non religiosa del suo pensiero e il suo atteggiamento eroico e protestatario di fronte «à la destinée».

Anzi cosí lacerante era quella irruzione di accuse e bestemmie (piú provvisoria quella contro la «stolta virtú», bestemmia di un disperato amante di quella; piú duratura e approfondibile quella contro il destino e gli Dei) che la canzone ne ritrasse l’origine piú vera del suo tono concitato e gridato, del suo gestire convulso ed eccessivo, del suo stesso linguaggio brunito e tempestoso, e sin enfatico e aulicamente sforzato: come in quella prosopopea del «prode» che «indomito» «si pompeggia» «scrollando» la «destra» «tiranna» del fato «allor che vincitrice il grava», e che, se indusse il Russo[5] a vedervi un’enfasi denunciatrice, in generale, di «una certa gracilità interiore di lottatore» del Leopardi, piú giustamente deve indurre a constatare in quella canzone sí un eccesso, ma legato profondamente al bisogno di supplire ad un mancato approfondimento della novità brusca di posizioni di protesta eroica che sarebbero già meglio maturate (trovando cosí una misura piú intima e non perciò meno intimamente aggressiva) nel corso del ciclo all’altezza dell’Ultimo canto di Saffo, e avrebbero poi proseguito il loro approfondimento nella meditazione dello Zibaldone e nelle Operette morali per trovare i loro esiti piú persuasi e poetici negli ultimi canti. Anche qui il Leopardi appare vicino (con una indubbia forza di anticipazione cronologica e di diversa direzione generale) a certe posizioni della crisi romantica: si pensi almeno alla piú tarda protesta di De Vigny specie nel finale di Le mont des oliviers:

Muet, aveugle et sourd au cri des créatures,

si le Ciel nous laissa comm un monde avorté

le juste opposera le dédain à l’absence

et ne répondra plus que par un froid silence

au silence éternel de la Divinité[6].

Ma lungi dal silenzio del «giusto» di De Vigny, il «prode» leopardiano oppone agli «inesorandi numi», ai «marmorei numi» con i loro «celesti odii» esercitati sui «giusti e pii», ai «sordi regi» «d’Olimpo e di Cocito», il suicidio con cui si libera dalla loro «frodolenta legge» e dal sopruso della natura che intende imporre anche all’uomo «snaturato» la conservazione di una vita infelice; oppone il suo «maligno» sorriso, la sua voluttà di annientamento totale (fuori di ogni foscoliana religione del sepolcro e della memoria), la sua fremente e gridata bestemmia.

E tutto nella cupa canzone, nel canto dell’eroe solo, suicida e protestatario (e d’altronde alfierianamente «molle di fraterno sangue») contribuisce a questa bestemmia indignata e senza mezzi termini; il linguaggio brunito e forzato, la sintassi risentita e inarcata, la stessa metrica rarefatta di rime (solo sei versi sui quindici della strofe sono rimati di cui due alla fine, a rima baciata, con suggello solenne e sonante, mentre nelle precedenti canzoni solo un verso era non rimato) per far risaltare il ritmo sintattico e la sua forza severa, scura, prepotente.

Proprio la successiva prova di Alla Primavera o delle favole antiche (gennaio 1822) sembra rispondere all’impeto tetro e pregno del Bruto, alla sua acerba e brusca rottura, con una ripresa e difesa della natura quando essa era «reina e diva» e consonava simpateticamente con le gioie e le pene degli uomini. Per quella difesa il Leopardi doveva slittare all’indietro attraverso la letteratura greco-latina alle origini mitiche di cui essa si era alimentata, concludendo – in mancanza di ogni vera possibilità di ripristino di quell’accordo nel presente – con una esile e timida preghiera ad una natura non «pietosa», ma «spettatrice almeno», dopo che alla domanda ansiosa «Vivi tu, vivi, o santa natura?» il poeta non aveva dato diretta risposta eludendola nella rievocazione favolosa ed elegantissima (ma non perciò frigida e filologica) del mondo mitico e sottoponendola al dubbio e alla restrizione finale:

[...] se tu pur vivi,

e se de’ nostri affanni

cosa veruna in ciel, se nell’aprica

terra s’alberga o nell’equoreo seno,

pietosa no, ma spettatrice almeno.

E d’altra parte questa poesia, cosí dominata da un moderato fervore – corrispondente alla natura problematica del suo tema meditativo-poetico (donde la sua configurazione in forma di rabesco sottile e sinuoso, ricco di dubbi e perplessità: i «se», i «forse», i «perché» numerosissimi) intrecciandosi alle ipotesi ramificate dello Zibaldone intorno alla consistenza del sistema della natura – porta di fronte al Bruto minore una ricerca di toni sommessi misurati, elusivi, fra preziosi, teneri, vagheggianti e chiaroscurali (la rappresentazione della primavera con la «grave ombra» delle nubi che, «fugata e sparta» dallo Zefiro, «s’avvalla», i delicati e pietosi miti di Eco, di Dafne, Filli, Climene) che oppone la sua misura elegante a quella irruente e gridata del Bruto e prepara la fusione di voce energico-delicata dell’Ultimo canto di Saffo, la complessità, in questo, della denuncia e protesta fattasi piú intima e profonda e perciò meno bisognosa dell’eccesso ipertensivo del Bruto, perché insieme aperta a vagheggiare e a svelare le «amene sembianze» della natura quali appaiono, attraenti e ripugnanti insieme, al «dispregiato amante». Il quale nel suo monologo lirico-drammatico prende poeticamente coscienza della sua situazione e della situazione umana, sottoposta agli inganni allettanti e alla indifferenza ostile e malvagia della natura, del caso, del «padre» Giove: padre non-padre[7] se ha permesso una contraddizione cosí scellerata fra altezza spirituale e deformità fisica in una sua creatura disposta all’amore e condannata all’isolamento e al suicidio, in una condizione cosí diversa da quella eroico-individualistica di Bruto vinto-vincitore, autosufficiente e «pompeggiantesi» nella sua strenua affermazione protestataria.

Infatti la spinta protestataria, antiprovvidenzialistica, atea (o meglio qui antiteistica) violentemente impostata nel Bruto minore, ben riaffiora nell’Ultimo canto di Saffo e la stessa eccezionalità enorme del suo caso tanto piú intimo e astorico (valido dunque anche nel pieno delle età antiche e naturali prima della loro caduta e dell’intervento della ragione corruttrice), la stessa delicatezza piú indifesa del personaggio femminile e ricco di tensione affettuosa, permettono una piú profonda e intensa corrosione del significato della natura madre benevola, anche se quel caso potrebbe ancora apparire come uno di quegli «inconvenienti necessari» del sistema su cui il Leopardi di questo periodo insisteva nello Zibaldone avvertendoli (al di là della sua stessa esperienza biografica) e insieme cercando di ridurne la portata come eccezioni inevitabili di un cosí complesso sistema.

Di fatto in quell’altissima poesia (il punto piú alto della poesia del ciclo ’21-22), che si alimentava di suggerimenti romantici e preromantici (dalla Delphine e dalla Corinne della Staël alle Avventure di Saffo di Alessandro Verri, usufruite queste però in un senso opposto a quello dell’illuminista convertito al cattolicesimo[8], fino allo stimolo piú profondo della Mirra alfieriana, innocente vittima di uno scelus in lei immesso dall’alto), la protesta si fa tanto piú matura e decisiva quanto piú appare graduata (e la graduazione è essenziale in questo campo dalla costruzione di perfetta favola drammatica tanto che lo stesso amore non corrisposto per Faone si dichiarerà solo all’ultimo pur colorando di allusioni amorose tante immagini dello stesso paesaggio animato nel corso precedente del componimento) e trattenuta dal complesso riserbo del personaggio, dal suo contrasto fra bisogno di «lamenti» e il senso della vanità di quelli. Sicché dalla verifica di quel «caso» tanto piú erompe profondamente la verità lacerante del suo significato e la sua estensibilità alla generale condizione umana, tanto che il «noi» di Saffo oscilla fra pluralis maiestatis e l’allusione a tutti gli uomini fino a farsi unificazione di tutto il genere umano nel finale e nella definitiva diagnosi della vita dell’uomo:

[...] Ogni piú lieto

giorno di nostra età primo s’invola.

Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra

della gelida morte...

Una diagnosi di infelicità esistenziale che ormai traspare persino nella frase rivolta a Faone («vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal») in quella luce di generosità, di magnanimità affettuosa di Saffo che vuole essere superiore e diversa rispetto alla crudeltà e all’indifferenza della natura nello stesso momento supremo della decisione della morte volontaria, privata cosí della rivalsa «maligna» e titanica di Bruto, della sua voluttà vendicativa di totale annientamento e di rifiuto di ogni affetto.

A questa diagnosi – in cui la poesia nel suo lungo attrito, non privo inizialmente di aperte espansioni violente (il «gaudio» della natura tempestosa e ossianesca), coglie le sue note piú profonde di vago e vero, di sobria e lucida densità fantastica – il componimento giunge attraverso un lungo svolgimento saldamente posseduto e dominato, che nel suo «filosofar poetando» ha evidenziato senza residui lo scacco supremo della persona innocente (voce di se stessa e di tutta l’umanità) nella sua vana ricerca dell’accordo con la natura, appassionatamente tentato e non ottenuto, la verità ambigua e terribile del sistema «provvidenziale» della natura nelle sue «amene sembianze», cosí effettivamente rappresentate e nella sua irrazionalità («il cieco dispensator de’ casi») e, peggio, nella sua indifferenza e ostilità, rivelata – nel profondo di un’esperienza totale e totalmente sofferta in una voce implacabile e priva di ogni enfasi – dal paradosso di un possibile peccato prenatale o infantile:

Qual fallo mai, qual sí nefando eccesso

macchiommi anzi il natale, onde sí torvo

il ciel mi fosse e di fortuna il volto?

In che peccai bambina, allor che ignara

di misfatto è la vita...?

Nelle forme «vereconde» (quelle bellezze vereconde che sfuggono, secondo il Leopardi del Parini, al lettore impaziente e si imprimono piú profondamente nell’animo del lettore degno del poeta) di questo canto cosí complesso e compatto e cosí nuovo nel linguaggio e nella sua stessa metrica affidata a strofe di endecasillabi sciolti, siglati da un settenario ed endecasillabo a rima baciata (una nuova scelta nella strenua ricerca di una dissoluzione rinnovatrice dei metri lirici tradizionali[9]), il Leopardi è giunto a tali posizioni sull’incolpevolezza degli uomini (seppure partendo da un caso eccezionale che ancora sulla linea del pensiero analitico poteva apparire non decisivo), sull’inutilità di fondare felicità e integralità umana sul piano della corrispondenza uomo-natura, che il tentativo di colmare la lacerazione inferta dalla poesia al suo sistema della natura con un’estrema difesa poetica (l’Inno ai Patriarchi o de’ principii del genere umano) della felicità naturale nella biblica zona patriarcale appare indubbiamente piú volenteroso che efficace, piú una battaglia di retroguardia che un vero intervento persuaso ed inteso a ristabilire nella sua pienezza le ragioni e il sentimento del sistema della natura. Ricordiamo la profonda sentenza del Leopardi secondo cui «il sentimento se non è fondato sulla persuasione è nullo»[10], mentre può senza quello vivere piú fanciullescamente l’immaginazione.

Ebbene nell’Inno ai patriarchi il tema «persuaso» è debole e stanco, puntellato dal ritorno ad elementi pensati in altra fase per quegli ibridi e incerti inni cristiani ormai ben lontani dalla prospettiva di chi aveva scritto il Bruto e la Saffo (cosí il finale sui felici selvaggi americani è ben interessante per l’accusa al colonialismo[11] bianco per la sua interessata e sfruttatrice civilizzazione corruttrice, ma nella stessa delineazione dei buoni selvaggi in una vita senza attività e impegni è assai meno lontano dalla stessa piú vera esaltazione dello stato naturale energico e ricco di illusioni). E viceversa alla mancanza della «persuasione» e del «sentimento» il Leopardi supplisce con un largo impiego dell’astratta e ornamentale «immaginazione» (e non a caso l’elaborazione dell’inno fu laboriosissima, ma priva di quelle varianti decisive che dal linguaggio riportano a centri essenziali della problematica leopardiana) applicandosi a svolgere larghi quadri giustapposti, e di varia suggestione elegante e vaga, sulla vita beata dei veri patriarchi, del resto contraddetta (ma senza fecondo attrito) dall’iniziale rilievo sulla corruzione aperta da Caino fondatore di vita associata.

La poesia nata nell’attrito complesso del ciclo nei suoi rapporti fecondi con lo Zibaldone si era realizzata soprattutto nell’Ultimo canto di Saffo e dall’Inno ricadeva, piú stanca ed incerta, per sciogliersi, entro la fitta analisi dello Zibaldone, che, con pertinacia ed esaurienza (prova del bisogno leopardiano di sperimentare fino in fondo la validità di una prospettiva che entra in crisi, ma che non vuol cedere alle prime rotture senza adeguata convalida analitica), prosegue a ragionare il sistema della natura e a configurarne e a limitarne l’incontro di «beneficii» e «inconvenienti», i «miracoli» e le «contraddizioni» che investono lo stesso autore della natura non ancora, sul piano analitico, interamente rifiutato e demistificato.


1 Si veda questo passo eccezionalmente importante dello Zibaldone, 24 novembre 1821 (Tutte le op. cit., II, p. 568), che può essere ben applicato alla stessa poesia: «Tutto è animato dal contrasto, e langue senza di esso. Ho detto altrove della religione, de’ partiti politici, dell’amor nazionale ec. tutti affetti inattivi e deboli, se non vi sono nemici. Ma la virtú, o l’entusiasmo della virtú (e che cosa è la virtú senza entusiasmo? e come può essere virtuoso chi non è capace di entusiasmo?) esisterebbe egli se non esistesse il vizio? Egli è certissimo che il giovane del miglior naturale, e il meglio educato, il quale ne’ principii dell’età alquanto sensibile e pensante, e prima di conoscere il mondo per esperienza, suol essere entusiasta della virtú non proverebbe quell’amor vivo de’ suoi doveri, quella forte risoluzione di sacrificar tutto ai medesimi, quell’affezione sensibile alle buone, nobili, generose inclinazioni ed azioni, se non sapesse che vi sono molti che pensano e adoprano diversamente, e che il mondo è pieno di vizi e di viltà, sebbene egli non lo creda cosí pieno com’egli è, e come poi lo sperimenta».

2 Non si dimentichi la congenialità di Giacomo con la giovane Paolina, lettrice appassionata di Stendhal, amante delle forti passioni (e in una lettera del 31 agosto 1832 [Tutte le op. cit., I, p. 1390] le diceva: «ho riveduto il tuo Stendhal»).

3 Cfr. Zibaldone, 24 luglio 1821 (Tutte le op. cit., II, p. 400): «Malgrado quanto ho detto dell’insociabilità dell’odierna filosofia colla poesia, gli spiriti veramente straordinari e sommi, i quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni, e quasi dell’impossibile, e non consultano che loro stessi, potranno vincere qualunque ostacolo ed essere sommi filosofi moderni poetando perfettamente. Ma questa cosa, come vicina all’impossibile, non sarà che rarissima e singolare».

4 Nella Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte (del marzo ’22) si legge che la sentenza di Bruto contro la virtú «fu come un’ispirazione della calamità, la quale alcune volte ha forza di rivelare all’animo nostro quasi un’altra terra, e persuaderlo vivamente di cose tali, che bisogna poi lungo tempo a fare che la ragione le trovi da se medesima... E in questa parte l’effetto della calamità si rassomiglia al furore de’ poeti lirici che d’un’occhiata (perocché si vengono a trovare quasi in grandissima altezza) scuoprono tanto paese quanto non ne sanno scoprire i filosofi nel tratto di molti secoli» (Tutte le op. cit., I, p. 207). Il Leopardi svolgerà poi il tema in uno dei grandi pensieri del ’23: «Il poeta lirico nell’ispirazione, il filosofo nella sublimità della speculazione, l’uomo d’immaginativa e di sentimento nel tempo del suo entusiasmo, l’uomo qualunque nel punto di una forte passione, nello entusiasmo del pianto; ardisco anche soggiungere, mezzanamente riscaldato dal vino, vede e guarda le cose come da un luogo alto e superiore a quello in che la mente degli uomini suole ordinariamente consistere. Quindi è che scoprendo in un sol tratto molte piú cose ch’egli non è usato di scorgere a un tempo, e d’un sol colpo d’occhio discernendo e mirando una moltitudine di oggetti, ben da lui veduti piú volte ciascuno, ma non mai tutti insieme (se non in altre simili congiunture), egli è in grado di scorger con essi i loro rapporti scambievoli e per la novità di quella moltitudine di oggetti tutti insieme rappresentantisegli, egli è attirato e a considerare, benché rapidamente, i detti oggetti meglio che per l’innanzi non avea fatto, e ch’egli non suole; e a voler guardare e notare i detti rapporti. Ond’è ch’egli ed abbia in quel momento una straordinaria facoltà di generalizzare (straordinaria almeno relativamente a lui ed all’ordinario del suo animo), e ch’egli l’adoperi; e adoperandola scuopra di quelle verità generali e perciò veramente grandi e importanti, che indarno fuor di quel punto e di quella ispirazione e quasi μανία e furore o filosofico o passionato o poetico o altro, indarno, dico, con lunghissime e pazientissime ed esattissime ricerche, esperienze, confronti, studi, ragionamenti, meditazioni, esercizi della mente, dell’ingegno, della facoltà di pensare di riflettere di osservare di ragionare, indarno, ripeto, non solo quel tal uomo o poeta o filosofo, ma qualunqu’altro o poeta o ingenuo qualunque o filosofo acutissimo e penetrantissimo, anzi pur molti filosofi insieme cospiranti, e i secoli stessi col successivo avanzamento dello spirito umano, cercherebbero di scoprire, o d’intendere, o di spiegare, siccome colui, mirando a quella ispirazione, facilmente e perfettamente e pienamente fa a se stesso in quel punto, e di poi a se stesso ed agli altri, purch’ei sia capace di ben esprimere i propri concetti, ed abbia bene e chiaramente e distintamente presenti le cose allora concepite e sentite» (Zibaldone, 26 agosto 1823, in Tutte le op. cit., II, pp. 817-818).

5 G. Leopardi, I Canti, a cura di L. Russo, Firenze 1945, p. 173.

6 Mentre in zone precedenti o contigue cronologicamente si pensi alle proteste piú torbide del Byron del Caino o del Manfredo, o a quella umanisticamente fiduciosa del Prometeo goethiano, o a quella ribelle del Prometeo liberato di Shelley.

7 In Leopardi sempre piú cade logorato ogni concetto di paternità celeste e, nel mondo senza protezioni paterne o materne (la madre natura), emergerà per lui, faticosamente, attraverso un complesso attrito di odio e amore per l’uomo (odio per delusione realistica, amore senza dolciastra e concessiva pietà, amore severo e sempre pronto al rimprovero e alla lotta contro gli sciocchi e i mistificatori), un profondo e virile senso di fraternità umana.

8 Si veda circa le Avventure di Saffo del Verri il saggio di C. Muscetta, L’ultimo canto di Saffo, in Ritratti e letture, Milano, 1961, e le mie osservazioni nel saggio cit. Leopardi e la poesia del secondo Settecento.

9 Si veda in proposito il volume di K. Maurer, Giacomo Leopardis Canti und die Auflösung der lyrischen Genera, Frankfurt a. m. 1956.

10 Zibaldone, 24 agosto 1821 (Tutte le op. cit., II, p. 440).

11 Del resto nell’abbozzo in prosa del passo degli Inni cristiani utilizzato nell’Inno c’era un preciso riferimento all’opera di collaborazione al colonialismo da parte dei «missionari», caduto nell’Inno.